
Testo riadattato tratto da “Europa domani, studi in onore di Giuseppe Di Taranto”
Luiss University Press, 2019
La globalizzazione sta rapidamente mutando o, forse, avviandosi a un lento processo di implosione.
Non sono parole mie ma di Giuseppe Di Taranto, che le usava nel 2004 per commentare una lecture di Bertrand Badie, allora ospite della nostra Università.
“Sapete chi è un economista?”, chiedeva l’anonimo protagonista di una vecchia storiella, che poi rispondeva: “Quello che, se gli chiedi che ore sono, risponde fammi vedere l’orologio e te lo dirò’.
Il senso è che, spesso, l’analisi economica non è altro che osservazione empirica e valutazione di fatti e dati in tempo reale, e non previsione – o addirittura visione del futuro o profezia -, sotto le cui sembianze spesso si presenta e come, forse abituati male dagli esperti, ci aspetteremmo.
Difficile contraddire la storiella: basta scorrere gli scaffali per ritrovare decine e decine di vecchi libri, presentati come definitivi nella loro lungimiranza al momento dell’uscita, e rivelatisi superati troppo presto.
Le parole del professor Di Taranto mi sono tornate in mente quando l’Economist, subito dopo la Brexit del giugno 2016, ha parlato a chiare lettere di fine della globalizzazione, peraltro già dichiarata “in ritirata” un anno prima dal settimanale inglese. Si direbbe che Di Taranto non abbia avuto bisogno di osservare le lancette dell’orologio che indossiamo oggi per mostrarci, più di un decennio fa, in quale situazione ci saremmo trovati. Come ci è riuscito, allora?
Ha-Joon Chang, professore di economia politica a Cambridge e capofila dei cosiddetti “economisti non ortodossi”, ha scritto, in un saggio provocatorio di qualche anno fa, che la scienza economica è al 95% buon senso reso complicato da espressioni tecniche e formule matematiche, utili a farla apparire più complessa di quello che è ai profani, con lo scopo di giustificare gli alti compensi di coloro che se ne occupano professionalmente. Non so se Di Taranto condividesse la battuta del suo collega sudcoreano, ma di certo, leggendo quanto scriveva o sentendolo parlare a lezione (o in uno dei tanti interventi pubblici), probabilmente avrebbe condiviso la missione di portare chiarezza e semplicità in un campo spesso così poco accessibile ai non addetti ai lavori.
Le sue “istruzioni per l’uso”, a volte schiette al punto da far arrabbiare qualche collega, sono patrimonio di generazioni di studenti e allievi.
Una parola che, di questi tempi, sembra costantemente associata agli studi di economia è “fine”.
A dare un’occhiata alle più importanti, recenti pubblicazioni, un’epoca e un intero assetto culturale si direbbero giunti alle loro battute conclusive. Solo negli ultimi mesi, Robert J. Gordon ha scritto che la crescita economica è finita per sempre. L’ex governatore della Banca di Inghilterra, Mervyn King, ha parlato di “fine dell’alchimia” riferendosi alla crisi degli istituti bancari centrali, e l’economista statunitense David Kotz vede terminata l’epopea del capitalismo neoliberale. L’Unione europea non sembra passarsela molto meglio. Secondo diversi osservatori, e forse nella percezione popolare, la decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione è equivalsa alla fine di quest’ultima. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ritiene che il colpevole della fine sia l’euro. Le appassionate lotte attorno alla moneta unica europea lascerebbero ritenere che molti hanno letto gli scritti di Di Taranto, che è stato tra i primi critici di provenienza accademica. I loro toni spesso troppo accesi lasciano invece concludere che, purtroppo, non lo hanno fatto.
Non abbiamo fin qui rivelato la ricetta segreta che Giuseppe Di Taranto ha usato, tante volte, per sembrare così in anticipo su tanti suoi colleghi. La verità è che non ci sono segreti, né formule magiche.
La profonda preparazione e l’attento, incessante studio costituiscono da soli gran parte della risposta. L’umiltà e la pacatezza dei modi sono ma in più di uno studioso che non si lascia facilmente distrarre dai tuoni e dai fulmini della tempesta di idee in cui è immerso. La conoscenza approfondita della storia economica, vale a dire del comportamento umano, deve avergli insegnato che spesso ci affanniamo a cercare risposte senza trovarle, quando basterebbe guardare nel posto giusto – nella grande lezione del nostro passato.
Ricordavo poche righe fa di come, molto spesso, l’economia sembra essere più che altro una questione di fine.
Queste parole servono a chiudere un libro ma, spero, anche a invitare chi non abbia conosciuto il professor Di Taranto a leggere i suoi scritti. Per chi ha avuto l’onore di conoscerlo, invece, il ricordo di averlo ascoltato nel suo ambiente naturale: in aula, a fare lezione. Immaginiamoci lì, ancora una volta, seduti nelle prime file ad ascoltarlo, pronti a imparare ancora cosa succederà domani – o a prestare al professore l’orologio.
Ciao, Pino.