Immaginate un parco giochi per bambini immerso nel verde, con giostre nuove e testate sotto i migliori controlli di sicurezza. Panchine tutte intorno, cosicché i genitori possano tenere sotto stretta osservazione i loro figli che giocano e un presidio medico mobile sempre presente, così da poter medicare immediatamente le eventuali ferite che un bambino dovesse riportare a seguito delle sue attività. Anche se l’eventualità è piuttosto improbabile, dal momento che tutti i giochi sono strettamente monitorati per essere sicuri e la manutenzione è costante.
Ora immaginate lo stesso parco giochi, ma con pozzanghere fangose, casse di legno, martelli, seghe e coltelli al posto delle giostre. Invece del prato, cespugli pieni di spine. Tutto rigorosamente sprovvisto di recinzioni che tengano alla larga i bambini.
Una bella differenza, non credete? Eppure, difficile a dirsi di primo impatto, entrambi rappresentano un ambiente sicuro di gioco. Il punto è capire lo scopo dell’uno o dell’altro.
In Inghilterra, dopo decenni passati a ridurre il più possibile il rischio, si sta ora cercando di reintrodurlo nell’educazione scolastica, attraverso la conversione di tradizionali aree da gioco per bambini in percorsi che includono pericoli calcolati e studiati per trasmettere un insegnamento.
Coltelli, fuoco, forbici e altri strumenti sono utilizzati sotto costante supervisione di un adulto, per insegnare ai bambini sin da subito a fronteggiare il rischio in un ambiente controllato e a imparare i comportamenti da evitare. Generalmente, dicono gli educatori responsabili del progetto, ai bambini basta una sola occasione per imparare la lezione. Basta toccare un coltello una sola volta per accorgersi che ha la lama affilata, facendo dunque più attenzione a maneggiarlo già dalla seconda.
Un team di ricercatori inglesi ha analizzato il comportamento delle famiglie in Inghilterra. Nel 1971 circa l’85% dei bambini di 9 anni andava a scuola da solo. Nel 1990, appena il 25%. La percezione di una società pericolosa (anche se molto più sicura che in passato) ci ha disabituati al rischio, e comprensibilmente cerchiamo di proteggere i nostri figli da esso il più possibile. Tuttavia, l’eccesso di protezione già nelle piccole cose può portare a una immaturità che impedisce di gestire le difficoltà in modo lucido e concreto.
Il rischio calcolato, infatti, è educativo. Un cartello al parco Princess Diana a Kensington Gardens a Londra informa i genitori che il rischio è intenzionale, cosicché i bambini possano imparare a gestirlo in un ambiente controllato, prima di doverlo imparare in un mondo meno regolato e controllato, con conseguenze probabilmente più gravi.
I bambini, una volta adulti, avranno il compito di cercare il loro posto nel mondo. Questo richiederà la capacità di adottare abilità creative e imparare a prendersi le proprie responsabilità, oltre a una percentuale di rischio. Se non interiorizzano questi doveri a quattro anni, sarà molto più difficile farlo da adulti.
Il nostro sistema educativo italiano è ancora improntato su un modello risk-averse, in cui il rischio è un pericolo da evitare, e da cui proteggere chi ci sta intorno. Tuttavia, mostrare ai ragazzi un mondo troppo ovattato, o troppo protetto, non li aiuta a sviluppare le capacità necessarie a fronteggiare l’imprevedibile.
Alcune tra le abilità più richieste oggi nel mondo del lavoro includono il pensiero creativo e la flessibilità. Movimento, più che status quo. Capacità di adattamento all’ignoto, più che una comoda passeggiata su una strada ben battuta.
E per insegnare queste abilità la teoria non basta.