1405783525872Un ecosistema imprenditoriale in rapido cambiamento e sviluppo. È questa l’immagine che emerge dall’ultimo rapporto di Italia Startup Who’s Who, presentato al GEC di Milano lo scorso 18 marzo.

Da questo rapporto emerge un tessuto di impresa, soprattutto ad alta tecnologia, piuttosto frastagliato. 118 milioni di euro investiti nel 2014 nelle startup hi-tech italiane, sia da fonti istituzionali che da business angels, family office e venture incubator. Comparando il dato a quelli precedenti, significa il 5% in più rispetto al 2012, ma il 9% in meno rispetto al 2013.

Diminuiscono gli investimenti da parte di attori istituzionali (-23%), ma aumentano quelli di attori non istituzionali (+17%), dunque anche incubatori e acceleratori.

A questo proposito è bene ricordare la grande attività di LUISS Enlabs, acceleratore d’impresa presso la stazione Termini, che – in controtendenza nazionale – ha visto aumentare gli investimenti in startup innovative. In meno di due anni sono stati raccolti più di 5 milioni in aumento di capitale e oltre 11 i milioni investiti da LVenture Group e terzi co-investitori. Al momento sono 30 le startup ospitate negli spazi di co-working di LUISS Enlabs e l’età media è tra i 25 e i 27 anni, a fronte di una media nazionale che vede uno startupper su quattro con meno di trent’anni, mentre il 31% ha fra i 30 e i 40 anni e il 43% è over 40.

Anche se il quadro nazionale che emerge dal rapporto di Italia Startup non è particolarmente roseo, si registrano tuttavia casi di exit di successo di imprese italiane comprate da società straniere, come quello di Gentium venduta per 732 milioni, Bravofly Rumbo Group per 578 milioni, Octo per 450 milioni.

Ancora esiguo, invece, il numero di startup guidate da donne. Secondo dati Unioncamere, la percentuale di startup al femminile è aumentata del 50,6%, ma resta di gran lunga una fetta molto minore di quella dei colleghi uomini. È “rosa”, infatti, solo il 12,4% delle oltre 3.200 startup innovative registrate ad oggi, contro il 21,5% delle aziende complessive italiane.

Nonostante i dati non troppo incoraggianti, resta da constatare che sta fiorendo un ecosistema dinamico, che potrebbe evolvere ancora più velocemente e meglio se si cominciasse a diffondere una “cultura del fallimento”. Non un incentivo a fallire, ma una best practice importata dalla Silicon Valley e da Israele, cuori pulsanti dell’innovazione imprenditoriale, dove il fallimento è visto come fattore di merito perché ha consentito di sperimentare degli errori che verosimilmente non si andranno a ripetere in futuro.

Michael Jordan ha detto una volta:

I’ve missed more than 9000 shots in my career. I’ve lost almost 300 games. 26 times, I’ve been trusted to take the game winning shot and missed. I’ve failed over and over and over again in my life. And that is why I succeed.

Forse i tempi non sono ancora maturi per un cambiamento del genere, ma sta a noi muovere i prossimi passi avanti.