«Abbiamo assistito a due anni di trasformazione digitale in due mesi». Commentava Satya Nadella, il numero uno di Microsoft, mentre consegnava a Wall Street il primo rapporto trimestrale 2020 del colosso dell’informatica. Era il primo trimestre dell’epoca Covid-19, l’era della quarta «onda rivoluzionaria».

Secondo Michio Kaku, professore di fisica teorica alla City University di New York e uno degli scienziati più conosciuti dei nostri tempi, la prima onda rivoluzionaria, nel 1800, fu provocata dall’avvento del vapore; la seconda, un secolo dopo, dalla scoperta dell’elettricità, mentre la terza è scoppiata in anni più recenti grazie al fenomeno internet. La quarta rivoluzione è dunque quella delle telecomunicazioni, che porta con sé cambiamenti significativi nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie e nell’intelligenza artificiale.

In un giorno qualsiasi di metà aprile, in tutto il mondo, abbiamo visto più di 300 milioni di utenti attivi su Zoom, più di 100 milioni su Google Classroom, più di 75 milioni su Microsoft Teams. I pc sono entrati talmente a far parte della nostra vita da essere ovunque, tanto che non ci accorgiamo nemmeno più della loro presenza, come è già accaduto con l’elettricità. Lo scoppio della pandemia ha portato con sé un’accelerazione senza precedenti nella digitalizzazione dei processi, un «digital empowerment» che si traduce in una aumentata consapevolezza su come la tecnologia e le sue applicazioni non sostituiscono ma aiutano l’uomo a vivere meglio. Ma siamo in grado di guidare questa accelerazione? Secondo gli ultimi dati del Desi Index 2020, l’indice che misura i progressi dei Paesi Ue sull’economia e la società digitale, ben 26 milioni di italiani tra i 16 e i 74 anni non hanno competenze adeguate per esercitare compiutamente i diritti di cittadinanza digitale e circa milioni navigano su Internet con conoscenze tecniche inferiori a quelle di base. Queste lacune individuali si riverberano giocoforza sulle nostre imprese meno inclini alla «digital transformation», causando bassa produttività e minore capacità di penetrare i mercati.

Il tema delle competenze digitali rappresenta, quindi, una grande emergenza ed è una delle sfide prioritarie che abbiamo di fronte per aumentare la competitività del nostro sistema e accrescere la qualità del nostro mercato del lavoro. Secondo Bmc Survey, infatti, oltre il 40% delle competenze chiave richieste per svolgere occupazioni esistenti muterà entro il 2022 e, nei prossimi vent’anni, per il 90% dei posti di lavoro saranno richieste «skills» digitali.

È vero, siamo indietro, ma non siamo fermi: con la recente firma del decreto di adozione della «Strategia nazionale per le competenze digitali» da parte della ministra Pisano, l’Italia si è dotata di un piano volto a colmare questo gap, con gli obiettivi dichiarati di combattere il digital divide, aumentare la percentuale di specialisti Ict e promuovere lo sviluppo delle competenze fondamentali, sostenendone la diffusione in tutto il ciclo dell’istruzione.

Anche il 5G, quasi 100 volte più veloce del 4G, aiuterà a colmare il divario digitale che esiste nel nostro Paese e in tutto il mondo. Proprio come l’invenzione della stampa e, molto più tardi, di Internet, il 5G sarà il prossimo gigantesco passo in avanti nel rendere disponibile la conoscenza all’intera popolazione mondiale. In questo processo, la formazione ricopre un ruolo centrale: se da un lato le «digital skills» dovrebbero essere parte integrante dei «syllabus» della scuola primaria —partendo dall’introduzione del pensiero computazionale e del «coding» dall’altro è cruciale che il consolidamento delle competenze digitali sia presente in ogni piano di studio di qualsiasi facoltà italiana, come ha proposto il ministro per l’Università e per la Ricerca Gaetano Manfredi, in una stimolante intervista su queste stesse pagine il giorno di Ferragosto. I silos distinti di materie tecnologiche e umanistiche dovranno essere abbattuti — ha evidenziato il ministro — per fare posto a grandi contenitori: e così il filosofo saprà programmare un computer e un ingegnere avrà competenze di scienze sociali. Una alleanza tra «tech» e «humanities» per consentire alle future generazioni di esplorare i nuovi territori della conoscenza con la giusta cassetta degli attrezzi. Se ieri la nostra generazione ha imparato a scrivere e a leggere per creare il proprio bagaglio culturale, per avere accesso a nuove conoscenze e trovare un lavoro, oggi con il digitale si è sviluppata una nuova modalità di apprendimento. Una modalità «phygital» che combina attività in presenza e digitali.

Quando io andavo a scuola e poi all’università, alcune delle cose più interessanti accadevano durante le pause. Se le lezioni si svolgeranno esclusivamente online, i nostri ragazzi non potranno più incontrarsi tra una lezione e un’altra. Siamo animali sociali, amiamo il contatto. il virus ha sfruttato queste caratteristiche che ci distinguono da tutti, contro di noi.

Abbiamo dovuto cambiare il nostro comportamento, ma dobbiamo fare di tutto per non cambiare la nostra natura. La peste nera del 1343 e l’influenza spagnola del 1918 non hanno cambiato la natura dell’uomo e nemmeno il Covid-19 lo farà. E allora, come succede in ogni momento di grande cambiamento, bisogna disegnare, pianificare e offrire alle nuove generazioni programmi efficaci e in linea con le nuove esigenze delle imprese.

E proprio per questa ragione che la nostra Università, in questi mesi, ha voluto lanciare «42 Roma Luiss», la rivoluzionaria scuola di coding che ha l’obiettivo di formare i «professionisti del digitale». Nella «42» gli studenti non rimangono nelle loro aule, escono e annusano fin da subito il mondo del lavoro; imparano a risolvere problemi, pensando fuori dagli schemi e lavorando in squadra. Una scuola per essere pronti a soddisfare le richieste di nuovi esperti della trasformazione digitale di imprese e pubblica amministrazione, smart people che possono contribuire a fare dell’Italia una «Smart Nation» in cui l’innovazione sia un vero motore di crescita del Paese.