Gary Turk è un giovane poeta e regista contemporaneo che nel 2014 è diventato un fenomeno di Internet in seguito al successo globale del suo video Look up. Con oltre 600 milioni di visualizzazioni, il mini-film è una performance di poesia e parole mescolata a una narrativa sotto forma di cortometraggio su come l’eccessivo utilizzo degli smartphone e dei social rischi di farci disconnettere dal mondo reale e dalle interazioni umane e personali.

In breve, il video mostra un ragazzo che si ferma all’angolo di una strada e chiede indicazioni a una ragazza che passa. In un veloce timelapse, si vedono i due che cominciano a frequentarsi, si sposano, hanno figli, nipoti e alla fine, ormai anziani, si prendono per mano dopo una vita trascorsa assieme. Poi il video torna improvvisamente al punto di partenza, con il ragazzo sempre fermo allo stesso angolo. Ma questa volta è troppo assorto a guardare il suo cellulare e non si accorge della ragazza che passa, perdendo l’occasione di incontrare la donna della sua vita. Il messaggio è chiaro: alza lo sguardo, osserva le persone accanto a te, parla con loro, non chiuderti in un mondo di solitudine fatto di amicizie virtuali. Mi ha colpito molto, perché in modo immediatamente intuitivo il video ci dà un messaggio potente e vero. Saramago fa dire a una dei protagonisti del suo libro Cecità questa frase: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Cosa siamo noi, oggi? Sappiamo cogliere il massimo dalla tecnologia, sfruttarne a pieno il potenziale, oppure stiamo diventando ciechi? Riusciamo a mantenere vive le nostre relazioni umane, pur tra un messaggio e una chiamata? La comunicazione interpersonale nell’era digitale ha perso su di sé un filtro. Scrivendo un messaggio invece di fare una telefonata perdiamo l’immediatezza della risposta. La possiamo anche rileggere, cancellare ciò che non ci piace o che potrebbe essere male interpretata dal nostro interlocutore, cosa che il dialogo diretto non ci consente di fare. Mandiamo allora messaggi vocali, più simili a una telefonata, ma pur sempre filtrati.

Non mi stancherò mai di dirlo: viviamo nel periodo migliore possibile. Le opportunità che abbiamo sono infinitamente più grandi di quelle che avremmo potuto avere due, tre o cinque decenni fa. I nostri ragazzi sono la generazione più istruita di sempre, abbiamo l’aspettativa di vita più alta e la mortalità infantile più bassa di tutte le generazioni precedenti. Ma parliamo meno. Comunichiamo costantemente, ma quasi non parliamo. Siamo sempre connessi, ma anche sempre più soli. Abbiamo acquisito tanti diritti, ma abbiamo perso il diritto alla disconnessione.

Recuperiamo un po’ di più della nostra dimensione umana, del nostro essere “animali sociali”, non solo social.

Annoiamoci pure, di tanto in tanto. Torniamo a guardare, non solo a vedere. Apprezzare il mondo intorno a noi è un esercizio di pace e serenità, ma anche formativo, perché serve a poco essere incredibilmente istruiti se non siamo in grado di mettere le nostre conoscenze a servizio della comunità in cui siamo. Alziamo lo sguardo, qualche volta in più.